Ultimo aggiornamento 18 Maggio 2022

L’INTERVISTA
pubblicata sul magazine Paspartu 1 agosto 2011

Chiaro e diretto, botta e risposta.
L’intervista con Marco Bernardini, giornalista del Corriere della Sera, scorre liscia.
Si parla della Versilia, della sua vita di giornalista “sul campo di battaglia” e del famoso zio Sergio Bernardini, fondatore de La Bussola di Focette…

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D: È uscito da poco un suo libro, “Fatemi scendere”. Di cosa parla?
R: Sono riflessioni dal gusto un po’ amarognolo. Cronaca di quotidiana e italiana follia. Una galassia di commenti, racconti, invettive, rigurgiti satirici e provocazioni… Si parla di un mondo bizzarro in cui i telegiornali sono armi di disinformazione di massa, le camicie verdi lottano contro il blu del cielo pianificando conquiste marziane, le ragazze dal seno troppo piatto non trovano lavoro e persino le antiche glorie di mondi mitici come la Versilia by night sono depredate da orde di barbari che scorrazzano in Ferrari inzuppando focaccine nello champagne. Intanto i bambini ci guardano e i bamboccioni pure. Il titolo “Fatemi scendere” è appunto la considerazione se sia il caso di fermarsi per riflettere un po’…

D: È riuscito a farsi fare la prefazione da Manlio Cancogni…
R: Sì, ma non l’ho violentato eh! (ride) Ha inquadrato benissimo il senso del libro.

D: Lei della scrittura ne ha fatto la sua professione. È vero che nelle case editrici, in generale, ogni editor è convinto di conoscere un libro meglio dell’autore stesso?
R: È vero. Ma c’è un motivo. Osservando qualcosa da lontano si riesce ad essere molto più oggettivi e anche a vedere le eventuali cadute all’interno di un testo. Può accadere che l’autore ceda a momenti di presunzione, di egocentrismo. Certo l’editor non si dovrebbe intromettere nei contenuti. Invece questa tendenza c’è e il primo ad inaugurarla è stato Stephen King. Lì non ci sono editor, ma veri e propri ghostwriter…

D: O meglio?
R: Persone che scrivono per lui. Ma quelle sono macchine da guerra, sono operazioni commerciali vere e proprie.

D: A lei è mai successo qualcosa del genere?
R: Il primo libro che ho scritto, ma che è uscito con il nome di un altro autore, è “Non ho mai perso la Bussola”. Uscì firmato da Sergio Bernardini, che era mio zio. In quel caso feci il ghostwriter: raccolsi il materiale, registrai tutto in una giornata di lavoro, poi scrissi il libro. L’idea era di Gianni Minà. Mio zio era un grandissimo talento a livello artistico, ma non sarebbe mai stato in grado di scrivere un romanzo perché aveva fatto a malapena le scuole superiori e non andava mai a scuola. Perciò io scrissi il libro, mi pagarono e via.

D: Lei non compare in quel libro?
R: No, anche se l’ho scritto io.

D: Ma quindi per lei ha senso il lavoro del ghostwriter?
R: Per me usare il ghostwriter non ha senso. Scusa, ma io mi sentirei una cacca se vedessi in libreria il mio libro, con la mia firma e sapessi che è stato scritto da un altro. D’altro canto questa operazione la vedo giustificata se si tratta di un’operazione squisitamente cinematografica, dove tu scrivi il soggetto per un film, che al massimo si compone di novanta righe, dopodichè si passa alla sceneggiatura, realizzata da due o tre persone che tengono fede al soggetto e che da quelle novanta righe tirano fuori un film.

“…un mondo bizzarro in cui i telegiornali sono armi di disinformazione”

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Sono Cinzia.
Faccio – con calma! – la giornalista e la blogger, con un occhio attento alla socialsfera.
Amo intercettare e raccontare persone, personaggi e luoghi da scoprire attraverso le interviste, che chiamo scherzosamente “torture”!

Sono appassionata di tecniche e interventi mirati a dare visibilità, come ad esempio la tortura personalizzata o il corretto uso dei social.
Contattami! oppure guarda i miei servizi qui

D: Lei nasce giornalista?
R: Io non credo alle vocazioni. Neanche a quella religiosa, che alla fine è un bisogno. Non credo che si nasca pittore, musicista o chissà cosa.

D: Perché ha iniziato a scrivere?
R: Per reazione e per ribellione. Nasco a Torino in una casa piena di libri. Mia madre era una grande lettrice oltre che dittatrice! Mi obbligava a suonare il pianoforte e a leggere. A quell’età avrei invece preferito giocare a pallone in cortile con gli amici. Poi da adolescente sono rimasto affascinato da un libro e da lì ho iniziato a leggere. Poi mi sono dedicato al teatro e per un po’ ho fatto l’attore. Scrivere non era una necessità: preferivo il cinema e il teatro.

D: Il passaggio al giornalismo quando è avvenuto?
R: Mentre ero a Milano collaboravo con L’Espresso. Nel 1970 mi contattò La Gazzetta dello Sport proponendomi di iniziare a scrivere per loro. Accettati per necessità. Ho fatto l’inviato speciale e il giro del mondo otto volte.

D: Perché ci sono così tanti scrittori?
R: Lo scrivere è frutto di una lettura quasi ossessiva, di una lettura che è una droga. Comunque mia figlia, che ha 16 anni, non legge mai però scrive e frequentando le scuole in Versilia sta iniziando a scrivere in dialetto.

D: Cosa è la lettura?
R: È il contenitore dove vai a succhiare la buona benzina per far funzionare la tua macchina.

D: Qual è il primo libro che ha letto?
R: “Cronache marziane”. Ho letto un sacco di fantascienza prima di passare ad altro.

D: È religioso?
R: Non sono cattolico. Non sono praticante. Mi auguro che ci sia qualcosa di là, sennò una vita così di merda cosa si fa a fare? Ho una mia spiritualità. Quel gesto là che feci di tirare fuori dalla libreria il primo libro e leggerlo, mi ha portato fin qui.

D: Per scrivere basta il talento?
R: No. Il talento ci deve essere, però se non si continua a studiare e ad esercitarsi, non si può fare della scrittura una professione.

D: Qualche ricordo piacevole di questa professione di giornalista?
R: In 40 anni di giornalismo ho fatto tanto. Ho intervistato Gheddafi, Salvador Allende, Fidel Castro, Liza Minnelli. Mi sono occupato di Sanremo. Ora sono in pensione. Ho fatto il giornalista da strada, quello che va a cercare le notizie sul campo.

“Ho fatto l’inviato speciale e il giro del mondo otto volte”

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D: Oggi il giornalismo com’è?
R: È una professione di merda, proprio da impiegati. Continuo a farlo. Quando mando un mio articolo in redazione, dopo circa un’ora chiamo e parlo con il redattore che risponde al telefono e che sta passando il mio pezzo. Di solito è un ragazzino di 25/26 anni che non sa nemmeno dove si trova. In ogni caso chiedo sempre “L’articolo va bene?”.  In questa professione bisogna abbandonare la presunzione e ricordare sempre che il quotidiano, il giorno dopo, serve per incartare il pesce.

D: Cosa dovrebbe fare un giornalista oggi?
R: Secondo me bisogna divertire e far riflettere: la funzione dovrebbe essere quella. Un cronista dovrebbe riportare il fatto così come è accaduto. Invece chi scrive gli editoriali, dovrebbe commentare personalmente.

D: Ci racconti il suo primo grande servizio giornalistico…
R: È stato nel 1973, in Algeria, al Congresso dei non allineati. Ero là con Igor Mann, un grande del giornalismo, che ogni tanto aveva la febbre perché aveva preso la malaria. Io ero un ragazzino. Dopo una conferenza, Mann si sentì male e mi chiese di scrivere un articolo al posto suo e di mandarlo a La Stampa. Così feci e lui mi ringraziò, proprio perché era un grande. Se fosse stato una mezza calzetta, non mi avrebbe ringraziato! Lì poi intervistai Gheddafi, Allende, Fidel Castro.

D: Quindi giornalisti si diventa?
R: Si diventa e si muore anche! È la professione di una vita, per quanto mi riguarda.

D: Serve essere curiosi?
R: La curiosità è uno dei tesori della vita. Quando sconfina nella maniacalità diventa aggressione e non va bene. Ma la curiosità è positiva.

D: Si annoia mai?
R: Io sono terrorizzato dalla noia, perché la noia rischia di farti andare in depressione.

“Mi auguro che ci sia qualcosa di là, sennò una vita così di merda cosa si fa a fare?”

D: È stato traumatico il salto da Torino alla Versilia?
R: Sì. Il cambio c’è stato un anno e mezzo fa. Decisi di venire in Versilia illudendomi che questa fosse la mia terra, perché mio padre e mio zio erano di qua. Comunque qui ho le mie radici: per 25 anni sono venuto qua ogni estate, frequentavo Marginone (frazione di Altopascio), perché i miei nonni erano di là. Il passaggio è stato un piccolo grande trauma. A Torino andavo a dormire alle cinque del mattino e mi svegliavo alle cinque del pomeriggio, non vedevo mai il sole e vivevo con la valigia. Qui in Versilia ho fatto i conti con una realtà che non mi aspettavo, sotto il profilo dei rapporti interpersonali e della gestione del lavoro.

D: Ci spieghi meglio…
R: Trovo che i versiliesi siano una razza un po’ napoletana, ma senza la fantasia e la praticità dei napoletani. Qui domina la chiacchiera, che spesso sfocia in pettegolezzo. C’è la filosofia sbagliata dell’“abbiamo il mare e lavoriamo 5 mesi l’anno”. C’è il teorema pericolosissimo dell’immagine secondo cui “conta l’apparire e non l’essere”. I versiliesi della mia generazione hanno già trasmesso questa filosofia alle generazioni successive e ciò è molto pericoloso. Vivendo con mia figlia, afferro con terrore che sta metabolizzando tutto ciò. Ad esempio se le chiedo “Dove vai?”, lei risponde “Vado a giro”, che per me è troppo generico!

D: Aveva pensato di tornare a Torino?
R: Sì, per la delusione. Poi però c’ho ripensato e, come terzo e ultimo step della mia vita, penso di rimanere qua.

D: Qualcosa di positivo in Versilia c’è?
R: Confido abbastanza in questa nuova ventata delle nuove amministrazioni della Versilia Medicea.

D: Adesso di cosa si occupa?
R: Continuerò a scrivere i miei libri e a scrivere per Il Corriere della Sera e per il Corriere Veneto. Poi adesso sono ragazzo-padre, perché mia figlia Chiara vive con me e compio 64 anni il 15 agosto.

D: Ci descriva la sua giornata-tipo…
R: Mi sveglio tardino. Mi occupo della spesa e di cucinare perché mia figlia studia. Leggo i giornali, anche se ne compro molti meno di una volta, perché uso internet. Non vedo quasi mai il mare e non faccio vita da spiaggia. Scrivo tutti i giorni e non vado a letto tardissimo. Sono drogato di film: a Torino andavo al cinema anche due volte al giorno, qui invece al cinema di pomeriggio non ci va nessuno, allora ho fatto l’abbonamento a Sky e a Premium.

D: Frequenta locali notturni?
R: No.

D: È strano…
R: Sì, nel senso che il locale notturno era il lavoro della mia famiglia. Oltre a mio zio Sergio, che tutti conoscono come il fondatore de La Bussola di Focette, anche mio padre Pino, più giovane di Sergio di 5 anni, gestiva locali notturni in Versilia e poi a Torino.

D: Frequenta ristoranti?
R: Mi piace mangiare bene. Qui in Versilia si mangia bene un po’ dovunque, dipende da quanto si vuole spendere, perché secondo me in tanti posti si spende un po’ troppo.

D: Un suo pregio?
R: Forse l’unico che ho, cerco di coltivare l’onestà intellettuale, che mi consente di essere sempre me stesso.

D: Un difetto?
R: Se nel prossimo numero di Paspartu hai due pagine vuote, facciamo l’elenco!

Chi è Marco Bernardini

Marco Bernardini è nato a Torino il 16 agosto 1947, ma è di origini toscane o, meglio ancora, versiliesi, essendo nipote del noto Sergio Bernardini fondatore de La Bussola di Focette. Giornalista professionista dal 1971 e responsabile del servizio “Esteri” alla Gazzetta del Popolo, nel 1976 passa a Tuttosport dove per trent’anni ricopre il ruolo di inviato speciale. Da due anni è collaboratore, in RCS, per le pagine culturali del Corriere Fiorentino e del Corriere del Veneto. Autore televisivo per Sky e La7. Ha pubblicato i libri: Olè (Graphot), Edoardo senza corona… senza scorta (Spoon River), Uno come Luca (Spoon River), Li abbiamo fatti cantare (Robin), Questa notte non si balla (Cairo), Fatemi scendere (Giovane Holden Edizioni). Da un anno vive a Pietrasanta.

FOTO DI ALDO UMICINI

Li torturo tuttiiiii!!!
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